venerdì 30 aprile 2021

COMPITI PER VACANZE ESTIVE LETTERE

 

COMPITI PER LE VACANZE ESTIVE – LETTERE

 

Italiano

 

-          diario quindicinale

-          2 schede libro

-          GRAMMATICA: esercizi da pag. 705 a pag. 709, n’ 2 – 3 – 4 – 5 – 6 (analizzare anche le congiunzioni)

 

 

Storia

 

Esercizi pagg. 326 – 327 – 328

Esercizi pagg. 366 – 367 – 368

Esercizi pagg. 370 – 371 ( da 1 a 7)

Esercizi pagg. 372 – 373 (da 1 a 3)

giovedì 29 aprile 2021

ITALIANO 2^ - Letteratura. U. Foscolo, Carme "Dei Sepolcri", a Ippolito Pindemonte

 

Ugo Foscolo – Dei sepolcri

 

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne

confortate di pianto è forse il sonno 

della morte men duro? Ove piú il Sole

per me alla terra non fecondi questa

bella d’erbe famiglia e d’animali,

e quando vaghe di lusinghe innanzi

a me non danzeran l’ore future,

né da te, dolce amico, udrò piú il verso

e la mesta armonia che lo governa,

né piú nel cor mi parlerà lo spirto

delle vergini Muse e dell’amore,

unico spirto a mia vita raminga,

qual fia ristoro a’ dí perduti un sasso

che distingua le mie dalle infinite

ossa che in terra e in mar semina morte?

Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,

ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve

tutte cose l’obblío nella sua notte;

e una forza operosa le affatica

di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe

e l’estreme sembianze e le reliquie

della terra e del ciel traveste il tempo.

      Ma perché pria del tempo a sé il mortale

invidierà l’illusïon che spento

pur lo sofferma al limitar di Dite?

Non vive ei forse anche sotterra, quando

gli sarà muta l’armonia del giorno,

se può destarla con soavi cure

nella mente de’ suoi? Celeste è questa

corrispondenza d’amorosi sensi,

celeste dote è negli umani; e spesso

per lei si vive con l’amico estinto

e l’estinto con noi, se pia la terra

che lo raccolse infante e lo nutriva,

nel suo grembo materno ultimo asilo

porgendo, sacre le reliquie renda

dall’insultar de’ nembi e dal profano

piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,

e di fiori odorata arbore amica

le ceneri di molli ombre consoli.

Sol chi non lascia eredità d’affetti

poca gioia ha dell’urna; e se pur mira

dopo l’esequie, errar vede il suo spirto

fra ’l compianto de’ templi acherontei,

o ricovrarsi sotto le grandi ale

del perdono d’Iddio: ma la sua polve

lascia alle ortiche di deserta gleba

ove né donna innamorata preghi,

né passeggier solingo oda il sospiro

che dal tumulo a noi manda Natura.

     Pur nuova legge impone oggi i sepolcri

fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti

contende. senza tomba giace il tuo

sacerdote, o Talia, che a te cantando

nel suo povero tetto educò un lauro

con lungo amore, e t’appendea corone;

e tu gli ornavi del tuo riso i canti

che il lombardo pungean Sardanapalo,

cui solo è dolce il muggito de’ buoi

che dagli antri abdüani e dal Ticino

lo fan d’ ozi beato e di vivande.

O bella Musa, ove sei tu? Non sento

spirar l’ ambrosia, indizio del tuo nume,

fra queste piante ov’io siedo e sospiro

il mio tetto materno. E tu venivi

e sorridevi a lui sotto quel tiglio

ch’ or con dimesse frondi va fremendo

perché non copre, o Dea, l’ urna del vecchio

cui già di calma era cortese e d’ ombre.

Forse tu fra plebei tumuli guardi

vagolando, ove dorma il sacro capo

del tuo Parini? A lui non ombre pose

tra le sue mura la città, lasciva

d’ evirati cantori allettatrice,

non pietra, non parola; e forse l’ ossa

col mozzo capo gl’insanguina il ladro

che lasciò sul patibolo i delitti.

Senti raspar fra le macerie e i bronchi

la derelitta cagna ramingando

su le fosse e famelica ululando;

e uscir del teschio, ove fuggia la luna,

l’úpupa, e svolazzar su per le croci

sparse per la funerëa campagna

e l’immonda accusar col luttüoso

singulto i rai di che son pie le stelle

alle obblïate sepolture. Indarno

sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade

dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti

non sorge fiore, ove non sia d’ umane

lodi onorato e d’ amoroso pianto.

Dal dí che nozze e tribunali ed are

diero alle umane belve esser pietose

di se stesse e d’ altrui, toglieano i vivi

all’ etere maligno ed alle fere

i miserandi avanzi che Natura

con veci eterne a sensi altri destina.

Testimonianza a’ fasti eran le tombe,

ed are a’ figli; e uscían quindi i responsi

de’ domestici Lari, e fu temuto

su la polve degli avi il giuramento:

religïon che con diversi riti

le virtú patrie e la pietà congiunta

tradussero per lungo ordine d’ anni.

Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi

fean pavimento; né agl’ incensi avvolto

de’ cadaveri il lezzo i supplicanti

contaminò; né le città fur meste

d’ effigïati scheletri: le madri

balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono

nude le braccia su l’ amato capo

del lor caro lattante onde nol desti

il gemer lungo di persona morta

chiedente la venal prece agli eredi

dal santuario. Ma cipressi e cedri

di puri effluvi i zefiri impregnando

perenne verde protendean su l’ urne

per memoria perenne, e prezïosi

vasi accogliean le lagrime votive.

Rapían gli amici una favilla al Sole

a illuminar la sotterranea notte,

perché gli occhi dell’uom cercan morendo

il Sole; e tutti l’ ultimo sospiro

mandano i petti alla fuggente luce.

Le fontane versando acque lustrali

amaranti educavano e vïole

su la funebre zolla; e chi sedea

a libar latte o a raccontar sue pene

ai cari estinti, una fragranza intorno

sentía qual d’ aura de’ beati Elisi.

Pietosa insania che fa cari gli orti

de’ suburbani avelli alle britanne

vergini, dove le conduce amore

della perduta madre, ove clementi

pregaro i Geni del ritorno al prode

cne tronca fe’ la trïonfata nave

del maggior pino, e si scavò la bara.

Ma ove dorme il furor d’inclite gesta

e sien ministri al vivere civile

l’opulenza e il tremore, inutil pompa

e inaugurate immagini dell’Orco

sorgon cippi e marmorei monumenti.

Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,

decoro e mente al bello italo regno,

nelle adulate reggie ha sepoltura

già vivo, e i stemmi unica laude. A noi

morte apparecchi riposato albergo,

ove una volta la fortuna cessi

dalle vendette, e l’amistà raccolga

non di tesori eredità, ma caldi

sensi e di liberal carme l’esempio.

A egregie cose il forte animo accendono

l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella

e santa fanno al peregrin la terra

che le ricetta. Io quando il monumento

vidi ove posa il corpo di quel grande

che temprando lo scettro a’ regnatori

gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela

di che lagrime grondi e di che sangue;

e l’arca di colui che nuovo Olimpo

alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide

sotto l’etereo padiglion rotarsi

piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,

onde all’Anglo che tanta ala vi stese

sgombrò primo le vie del firmamento:

- Te beata, gridai, per le felici

aure pregne di vita, e pe’ lavacri

che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!

Lieta dell’ aer tuo veste la Luna

di luce limpidissima i tuoi colli

per vendemmia festanti, e le convalli

popolate di case e d’oliveti

mille di fiori al ciel mandano incensi:

e tu prima, Firenze, udivi il carme

che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,

e tu i cari parenti e l’idïoma

désti a quel dolce di Calliope labbro

che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma

d’ un velo candidissimo adornando,

rendea nel grembo a Venere Celeste;

ma piú beata che in un tempio accolte

serbi l’itale glorie, uniche forse

da che le mal vietate Alpi e l’alterna

onnipotenza delle umane sorti

armi e sostanze t’invadeano ed are

e patria e, tranne la memoria, tutto.

Che ove speme di gloria agli animosi

intelletti rifulga ed all’Italia,

quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi

venne spesso Vittorio ad ispirarsi.

Irato a’ patrii Numi, errava muto

ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo

desïoso mirando; e poi che nullo

vivente aspetto gli molcea la cura,

qui posava l’ austero; e avea sul volto

il pallor della morte e la speranza.

Con questi grandi abita eterno: e l’ ossa

fremono amor di patria. Ah sí! da quella

religïosa pace un Nume parla:

e nutria contro a’ Persi in Maratona

ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,

la virtú greca e l’ira. Il navigante

che veleggiò quel mar sotto l’ Eubea,

vedea per l’ampia oscurità scintille

balenar d’elmi e di cozzanti brandi,

fumar le pire igneo vapor, corrusche

d’armi ferree vedea larve guerriere

cercar la pugna; e all’ orror de’ notturni

silenzi si spandea lungo ne’ campi

di falangi un tumulto e un suon di tube

e un incalzar di cavalli accorrenti

scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,

e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

Felice te che il regno ampio de’ venti,

Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!

E se il piloto ti drizzò l’antenna

oltre l’isole egèe, d’antichi fatti

certo udisti suonar dell’Ellesponto

i liti, e la marea mugghiar portando

alle prode retèe l’ armi d’Achille

sovra l’ ossa d’ Ajace: a’ generosi

giusta di glorie dispensiera è morte;

né senno astuto né favor di regi

all’Itaco le spoglie ardue serbava,

ché alla poppa raminga le ritolse

l’onda incitata dagl’inferni Dei.

E me che i tempi ed il desio d’ onore

fan per diversa gente ir fuggitivo,

me ad evocar gli eroi chiamin le Muse

del mortale pensiero animatrici.

Siedon custodi de’ sepolcri, e quando

il tempo con sue fredde ale vi spazza

fin le rovine, le Pimplèe fan lieti

di lor canto i deserti, e l’ armonia

vince di mille secoli il silenzio.

Ed oggi nella Troade inseminata

eterno splende a’ peregrini un loco,

eterno per la Ninfa a cui fu sposo

Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,

onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta

talami e il regno della giulia gente.

Però che quando Elettra udí la Parca

che lei dalle vitali aure del giorno

chiamava a’ cori dell’ Eliso, a Giove

mandò il voto supremo: - E se, diceva,

a te fur care le mie chiome e il viso

e le dolci vigilie, e non mi assente

premio miglior la volontà de’ fati,

la morta amica almen guarda dal cielo

onde d’Elettra tua resti la fama. -

Cosí orando moriva. E ne gemea

l’Olimpio: e l’immortal capo accennando

piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,

e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.

Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto

cenere d’Ilo; ivi l’iliache donne

sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando

da’ lor mariti l’imminente fato;

ivi Cassandra, allor che il Nume in petto

le fea parlar di Troia il dí mortale,

venne; e all’ombre cantò carme amoroso,

e guidava i nepoti, e l’ amoroso

apprendeva lamento a’ giovinetti.

E dicea sospirando: - Oh se mai d’ Argo,

ove al Tidíde e di Läerte al figlio

pascerete i cavalli, a voi permetta

ritorno il cielo, invan la patria vostra

cercherete! Le mura, opra di Febo,

sotto le lor reliquie fumeranno.

Ma i Penati di Troia avranno stanza

in queste tombe; ché de’ Numi è dono

servar nelle miserie altero nome.

E voi, palme e cipressi che le nuore

piantan di Priamo, e crescerete ahi presto

di vedovili lagrime innaffiati,

proteggete i miei padri: e chi la scure

asterrà pio dalle devote frondi

men si dorrà di consanguinei lutti,

e santamente toccherà l’altare.

Proteggete i miei padri. Un dí vedrete

mendico un cieco errar sotto le vostre

antichissime ombre, e brancolando

penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,

e interrogarle. Gemeranno gli antri

secreti, e tutta narrerà la tomba

Ilio raso due volte e due risorto

splendidamente su le mute vie

per far piú bello l’ultimo trofeo

ai fatati Pelídi. Il sacro vate,

placando quelle afflitte alme col canto,

i prenci argivi eternerà per quante

abbraccia terre il gran padre Oceàno.

E tu onore di pianti, Ettore, avrai,

ove fia santo e lagrimato il sangue

per la patria versato, e finché il Sole

risplenderà su le sciagure umane.