Grazie all’azione di letterati
come Pietro Bembo con le sue Prose della volgar lingua, e al
costituirsi di accademie letterarie
e non, un po’ovunque in Italia, si arriva in questi secoli ad avere
definitivamente coscienza della differenza che esiste tra lingua nazionale e dialetti
o lingue locali. Ciò era già evidente dal secolo XVI, ad esempio nell’opera
di Angelo Beolco detto il Ruzante,il quale compone le sue opere sia in volgare
italiano che in “lingua rustica”, cioè
in pavano, lingua parlata nel
teritorio padovano; non solo, in una sua opera, la Vaccaria, anticiperà
inconsapevolmente l’azione dell’Accademia
della Crusca, utilizzando e quindi analizzando varie lingue locali. Si
codifica così l’italiano poetico il cui carattere fondamentale è di essere
lingua separata da quella di uso quotidiano.
Quanto al rapporto con le altre
lingue, nel ‘500 forte è l’influenza spagnola. Anche nomi di animali e piante
esotiche provenienti dal Nuovo Mondo arrivano attraverso la mediazione dello
spagnolo e del portoghese: ad esempio mais, patata, ananas, etc. Ma d’altra
parte, in quest’epoca molti italianismi
penetrano nella lingue straniere, soprattutto nel campo della lettere e delle
arti; del resto l’italiano è abbastanza conosciuto in Europa.
E’ sempre in questi secoli che
va formandosi un altro carattere fondamentale della lingua che cominciò ad
essere usata anche nei trattati scientifici, fino ad allora scritti in latino.
Protagonista di questa
“rivoluzione” è Galileo Galilei: se
il Sidereus
Nuncius del 1610 è ancora in latino, la sua opera fondamentale, Dialogo
sopra i due massimi sistemi del mondo, del 1632, è in italiano.
Non è la prima volta che il
volgare è usato in opere scientifiche, ma in Galileo, che desiderava far
conoscere le sue teorie e i risultati delle sue ricerche a tutti e non solo agli
“addetti ai lavori”, è significativo di una precisa polemica del mondo della
scienza che non vuole più sottostare ai dogmatismi della religione. La lingua
di Galileo è anche esemplare per chiarezza e specificità: è evidente, infatti,
un lavoro non semplice di adattamento di una lingua, a volte quotidiana, a
volte letteraria,alle precise e non
equivocabili reali esigenze delle scienze esatte e sperimentali.
Dante Alighieri – COMMEDIA , Cantica Prima (Inferno) , Canto
Quinto
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
«guarda com’entri e di cui tu ti
fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non
resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».
«La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per torre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi il mio dottore
udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li
piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi
piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto
s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh
lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Questa notte ho sognato un gatto che mi parlava e mi raccontava…
Geografia
Un viaggio in… (organizza un
viaggio in uno dei seguenti paesi europei per il prof. Polato, descrivendo il
paese dal punto di vista fisico, ambientale e umano; indicane le principali
attrattive turistiche: storico-culturali-artistiche, costumi locali,
tradizioni, cucina, etc…; RICORDA CHE NON HO MOLTISSIMO TEMPO E CHE NON VOGLIO
SPENDERE ECCESSIVAMENTE!!!)