sabato 19 dicembre 2020

APPROFONDIMENTI LETTERARI 2^ - La "Commedia" di Dante Alighieri: Canto Quinto, Cantica Prima

 

Dante Alighieri – COMMEDIA , Cantica Prima (Inferno) , Canto Quinto

 

Così discesi del cerchio primaio 
giù nel secondo, che men loco cinghia, 
e tanto più dolor, che punge a guaio. 
      Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: 
essamina le colpe ne l’intrata; 
giudica e manda secondo ch’avvinghia. 
      Dico che quando l’anima mal nata 
li vien dinanzi, tutta si confessa; 
e quel conoscitor de le peccata 
      vede qual loco d’inferno è da essa; 
cignesi con la coda tante volte 
quantunque gradi vuol che giù sia messa. 
      Sempre dinanzi a lui ne stanno molte; 
vanno a vicenda ciascuna al giudizio; 
dicono e odono, e poi son giù volte. 
      «O tu che vieni al doloroso ospizio», 
disse Minòs a me quando mi vide, 
lasciando l’atto di cotanto offizio, 
      «guarda com’entri e di cui tu ti fide; 
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!». 
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride? 
      Non impedir lo suo fatale andare: 
vuolsi così colà dove si puote 
ciò che si vuole, e più non dimandare». 
      Or incomincian le dolenti note 
a farmisi sentire; or son venuto 
là dove molto pianto mi percuote. 
      Io venni in loco d’ogne luce muto, 
che mugghia come fa mar per tempesta, 
se da contrari venti è combattuto. 
      La bufera infernal, che mai non resta, 
mena li spirti con la sua rapina; 
voltando e percotendo li molesta. 
      Quando giungon davanti a la ruina, 
quivi le strida, il compianto, il lamento; 
bestemmian quivi la virtù divina. 
      Intesi ch’a così fatto tormento 
enno dannati i peccator carnali, 
che la ragion sommettono al talento. 
      E come li stornei ne portan l’ali 
nel freddo tempo, a schiera larga e piena, 
così quel fiato li spiriti mali 
      di qua, di là, di giù, di sù li mena; 
nulla speranza li conforta mai, 
non che di posa, ma di minor pena. 
      E come i gru van cantando lor lai, 
faccendo in aere di sé lunga riga, 
così vid’io venir, traendo guai, 
      ombre portate da la detta briga; 
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle 
genti che l’aura nera sì gastiga?». 
      «La prima di color di cui novelle 
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta, 
«fu imperadrice di molte favelle. 
      A vizio di lussuria fu sì rotta, 
che libito fé licito in sua legge, 
per torre il biasmo in che era condotta. 
      Ell’è Semiramìs, di cui si legge 
che succedette a Nino e fu sua sposa: 
tenne la terra che ’l Soldan corregge. 
      L’altra è colei che s’ancise amorosa, 
e ruppe fede al cener di Sicheo; 
poi è Cleopatràs lussuriosa. 
      Elena vedi, per cui tanto reo 
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille, 
che con amore al fine combatteo. 
      Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille 
ombre mostrommi e nominommi a dito, 
ch’amor di nostra vita dipartille. 
      Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito 
nomar le donne antiche e ’ cavalieri, 
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. 
      I’ cominciai: «Poeta, volontieri 
parlerei a quei due che ’nsieme vanno, 
e paion sì al vento esser leggeri». 
      Ed elli a me: «Vedrai quando saranno 
più presso a noi; e tu allor li priega 
per quello amor che i mena, ed ei verranno». 
      Sì tosto come il vento a noi li piega, 
mossi la voce: «O anime affannate, 
venite a noi parlar, s’altri nol niega!». 
      Quali colombe dal disio chiamate 
con l’ali alzate e ferme al dolce nido 
vegnon per l’aere dal voler portate; 
      cotali uscir de la schiera ov’è Dido, 
a noi venendo per l’aere maligno, 
sì forte fu l’affettuoso grido. 
      «O animal grazioso e benigno 
che visitando vai per l’aere perso 
noi che tignemmo il mondo di sanguigno, 
      se fosse amico il re de l’universo, 
noi pregheremmo lui de la tua pace, 
poi c’hai pietà del nostro mal perverso. 
      Di quel che udire e che parlar vi piace, 
noi udiremo e parleremo a voi, 
mentre che ’l vento, come fa, ci tace. 
      Siede la terra dove nata fui 
su la marina dove ’l Po discende 
per aver pace co’ seguaci sui. 
      Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende 
prese costui de la bella persona 
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. 
      Amor, ch’a nullo amato amar perdona, 
mi prese del costui piacer sì forte, 
che, come vedi, ancor non m’abbandona. 
      Amor condusse noi ad una morte: 
Caina attende chi a vita ci spense». 
Queste parole da lor ci fuor porte. 
      Quand’io intesi quell’anime offense, 
china’ il viso e tanto il tenni basso, 
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?». 
      Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, 
quanti dolci pensier, quanto disio 
menò costoro al doloroso passo!». 
      Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, 
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri 
a lagrimar mi fanno tristo e pio. 
      Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, 
a che e come concedette Amore 
che conosceste i dubbiosi disiri?». 
      E quella a me: «Nessun maggior dolore 
che ricordarsi del tempo felice 
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. 
      Ma s’a conoscer la prima radice 
del nostro amor tu hai cotanto affetto, 
dirò come colui che piange e dice. 
      Noi leggiavamo un giorno per diletto 
di Lancialotto come amor lo strinse; 
soli eravamo e sanza alcun sospetto. 
       Per più fiate li occhi ci sospinse 
quella lettura, e scolorocci il viso; 
ma solo un punto fu quel che ci vinse. 
       Quando leggemmo il disiato riso 
esser basciato da cotanto amante, 
questi, che mai da me non fia diviso, 
      la bocca mi basciò tutto tremante. 
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: 
quel giorno più non vi leggemmo avante». 
      Mentre che l’uno spirto questo disse, 
l’altro piangea; sì che di pietade 
io venni men così com’io morisse. 
      E caddi come corpo morto cade.