Per avere la certezza che chi
scrive usa coscientemente e volontariamente il volgare, considerandolo
chiaramente diverso e distinto dal latino, bisogna arrivare al 960, al PLACITO
CAPUANO. Nel documento (un atto giudiziario) fu inserita, all’interno
del testo latino, una frase pronunciata da un testimone che usava una parlata
campana: Sao ko kelle terre, per kelle
fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti. Nonostante
la presenza di alcuni resti di latino (quasi automatici per chi scrive), il
contrasto tra il latino ufficiale del resto del documento e la frase volgare
del testimone mostra, oltre ogni dubbio, la coscienza che latino e volgare
erano ormai due lingue distinte. Il Placito Capuano è considerato l’atto di
nascita ufficiale (perché contenuto
in un documento ufficiale e perché è marcata la distinzione tra latino e
volgare) del volgare italiano o, più
semplicemente, dell’italiano; sarebbe più esatto parlare di un volgare italiano; è chiaro che
questo documento non è l’inizio di
qualche cosa ma semplicemente testimonia qualcosa che sta avvenendo da
tempo, ne prende atto, e lo “formalizza”.
Ci volle ancora del tempo, però,
perché il volgare si facesse strada anche nella letteratura, pur essendoci numerose
e consapevoli testimonianze dell’uso del volgare anche in altri documenti
ufficiali o semi-ufficiali e/o letterari.
In questa situazione, anche se
vi era una molteplicità di variazioni locali del volgare (da non confondersi con quelli che noi
chiamiamo dialetti), comincia ad
affermarsi sugli altri il volgare
toscano.